Invecchiamento e Fragilità - Le considerazioni del DR. FERDINANDO SCHIAVO, il neurologo dei vecchi

 

L’invecchiamento della popolazione mondiale rappresenta un fenomeno di portata storica. Nel 2011, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stimato che nei prossimi quarant’anni (dal 2010 al 2050) il numero delle persone con più di 65 anni passerà da 524 milioni a 1,5 miliardi. In cento anni, dalla fine del ‘900 ai giorni nostri, le medie si sono elevate passando dai circa 43 anni agli attuali 79,4 per gli uomini e 84,5 per le donne, con un persistente ed evidente guadagno di vita per la donna che però non sempre corrisponde ad anni di “vita sana”.

 

Lʼinvecchiamento avrà conseguenze rilevanti anche sulla incidenza di varie patologie, e di conseguenza sull’organizzazione del sistema sanitario e socio-economico (risorse economiche, lavoro, pensioni, composizione dei nuclei familiari). In particolare, il carico delle malattie neurologiche e sensoriali (demenze, parkinsonismi, esiti di ictus cerebrale, problemi di equilibrio e cadute, alterazioni della vista e dell’udito, ecc.) appare sin da ora in crescita inesorabile, preparandosi a rappresentare uno dei maggiori costi diretti e indiretti per la società.

C’è una verità scomoda che la scienza ha il dovere di confessare subito: non siamo fatti per invecchiare. La vecchiaia non è iscritta nei nostri geni, è un fuori programma. L’invecchiamento l’abbiamo costruito nell’ultimo secolo con interventi di salute pubblica: si pensi solamente alle fogne, alla potabilizzazione dell’ acqua, ai vaccini, agli antibiotici, ecc. che hanno provocato tuttavia un (imprevisto) aumento degli ammalati cronici, indotto dalla sopravvivenza di persone fragili. La medicina, la politica, la società e i cittadini dovrebbero prenderne atto.

Chi è oggi una persona fragile? E’ spesso donna, come già accennato, in età avanzata, con multiple patologie croniche, per le quali assume diversi farmaci, clinicamente instabile, a volte solo/a e povero/a, con una elevata suscettibilità a sviluppare malattie acute che si esprimono con quadri clinici spesso atipici (confusione mentale, instabilità, cadute) i quali possono creare difficoltà diagnostiche. La persona fragile mostra una incapacità a reagire efficacemente ad un evento traumatico, ai cambiamenti atmosferici (la lunga estate calda del 2003, ad esempio), ad un procedimento diagnostico con mezzo di contrasto o meno, a un intervento terapeutico inappropriato, al riacutizzarsi di una malattia cronica oppure all’instaurarsi di una malattia acuta anche se di modesta entità, come un episodio influenzale o una cistite febbrile che possono, appunto, manifestarsi con aspetti confusionali che certamente non aiutano il medico ad indirizzarsi all’origine del problema. La persona fragile è pertanto un\a paziente ad alta complessità, storicamente ignorato\a dalla medicina tradizionale perché “disturbante” e “scomodo\a da gestire” da parte delle strutture sanitarie ed assistenziali, fino a non molti anni fa numericamente irrilevante, per ora scientificamente poco interessante, non gratificante sul piano professionale in quanto inguaribile.

Ma inguaribile non significa tuttavia incurabile! Malgrado la guarigione non sia un obiettivo perseguibile in tutte le malattie croniche, per definizione, esistono altri scopi del nostro operare con gli anziani, fra cui impegnarsi a prospettare e procurare, se possibile, degli small gains, dei piccoli miglioramenti che posseggono anche una valenza psicologica costruttiva e sono in grado di inaugurare dei seppur parziali circoli virtuosi: sospendere un sedativo che induce sonnolenza diurna, un antidepressivo che aggrava un comportamento apatico scambiato per depressione, un diuretico non necessario che disidrata e abbassa troppo la pressione arteriosa, ecc.); curare un “semplice” problema ai piedi che impedisce di camminare; migliorare l’alimentazione e lo stile di vita; parlare, comunicare, spiegare, stimolare, far cantare, ridere o dipingere, portare a passeggiare o a ballare. La gamma di piccoli interventi è infinita.

Ma questo richiede, da parte del medico, una solida cultura gerontologica, una grande preparazione clinica e un’esperienza profondamente maturata congiunta al “buon senso“, dove l’aspetto “motivazionale” gioca un ruolo fondamentale. Marco Trabucchi arriva ad affermare: … la classe medica è impreparata ad affrontare lo scenario determinato dall’invecchiamento della popolazione e dalle malattie croniche.

Richiede empatia da parte di tutti quelli che lavorano nel campo della salute e dei familiari stessi e ricorda che il primo dovere del medico, sempre e di fronte alla complessità, è “non nuocere”.

 

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